ARA PACIS

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Seduta sulla scalinata contempla la nuova realtà.
Il ricordo dei molteplici attraversamenti si palesa di getto.
Oltre quel palazzo l’Università dove ha studiato, la prima traversa a sinistra, lì dietro, appena girato l’angolo. Come sempre c’è traffico, ma per la prima volta Olga ne è seduta al centro.
Adagiata su tre gradini di travertino smerigliato, lascia scivolare lo sguardo intorno a sé.

Per la prima volta sperimenta la sofferenza provocata da una significativa incrinatura dell’ordinario, del conosciuto. Piani, segni, volumi e luce: luce bianca che si diffonde nell’invaso urbano, luce accecante tutt’intorno da cui emergono forme in rapido movimento. “Umani” pensa Olga soppesandoli.
La città è Roma il luogo è Piazza Augusto Imperatore l’edificio è l’Ara Pacis, o meglio la pesante lanterna che l’avvolge. Olga entra nella grancassa siderea dopo essersi sgranchita le gambe che scricchiolano sollevandosi.  Cammina cautamente. Un operaio l’osserva distratto, ne misura l’andatura che valuta al contempo incerta e guardinga.

Questa nuova architettura proietta la sua identità in un altro luogo, in un altra città, in un altra nazione. La sua stessa presenza, qui oggi, in una tarda mattinata sferzata da una prima brezza autunnale, è messa in dubbio, contestata e discussa.  Il trambusto, il caos, gli stridi, gli sfreghi, il cancan delle auto.
Gli umani che si affannano sudando.
Rumore che di colpo cessa, non si intromette e rimane trattenuto al di fuori dalle pesanti lastre di vetro della porta d’ingresso. Acquario. Allo straniamento sonoro segue quello visivo e cutaneo. I pori si schiudono lasciandosi attraversare dall’aria condizionata che stagna il rudere e lo rinfresca; l’iride dilatandosi si rilassa nella soffice radianza del cristallo smerigliato.

Guarda le statue in bella mostra: le riproduzioni dei busti della famiglia di Augusto. Si intromettono nel campo visivo una coppia di turisti le cui sembianze non si discostano da quelle dei gessi ora sullo sfondo;
si direbbe che il passato si sia fuso nel presente. I molti che sono sopravvissuti ai primi ora si beano e collimano con il reale eterno e imperituro.
Tutto assume l’aspetto di un sogno manipolabile. Russ Mayer e il suo imponente edificio. Piazza Augusto Imperatore è il tempio delle gattare, come la Mole Adriana dall’altro lato del Tevere. Mura fraciche solcate da cicorie e muschi millenari. All’odore di umido e stantio si mischia quello della ruggine delle cancellate, le pesanti balaustre volute nel ventennio a latere della vecchia teca che ora non c’è più.

Olga è dentro. Per la prima volta è dentro la nuova costruzione. Riti e leggende del costruire, “Russ Mayer è Mastro Manole?  Chi ha offerto in sacrificio?”.
Forse il Sindaco Rutellik. Oltre gli infissi l’ampia circonferenza del Mausoleo. Silenzio. Sospensione. Olga è catturata, prigioniera di uno spazio-tempo indefinito, non elaborato, spiazzante. Traslando con una lieve rotazione dell’anca il busto, nota, dall’altro lato, il Tevere e le macchine e, in fondo, i palazzi bidimensionali di Prati. I motorini sfrecciano, passano spediti attraverso la monumentale parete di vetro, insieme e da sinistra verso destra. Nessun clacson, nessun rimbombare di motori, nessuna imprecazione screziata. Qualcuno si agita aldilà del vetro, insulta con il labiale trattenuto in una smorfia. Dentro, Olga non percepisce alcun suono. Al centro si staglia l’altare della Pace, qualcuno è ancora intento a spolverare e restaurare le vestigia romane. Olga ci gira intorno, osserva e si fa testimone di una traccia. Nel contemplare quei volti quella romanità perduta nel tempo, si lascia andare all’emozione; l’epidermide rilascia nell’etere circostante un impercettibile vibrazione.

Un romano, di ritorno dall’ultima campagna militare, posa fiero il palmo della mano sul capo del piccolo bimbo, questo sta ritto ai suoi piedi gentile e dolce. Il tempo della Pace è il tempo per i figli, per le mogli e per i riti. Dall’altare scendono verso di lei forme di travertino presenti e reali come il luogo in cui appaiono.
Suono di cembali e odore d’incensi.
Olga si riconosce in una di quelle donne che lentamente si allontanano e scemano verso la città; seguono il corteo che accompagna il Divo Imperatore. Si lascia trasportare; è immersa in un sogno e l’andatura è lieve. La donna d’alabastro, con un movimento impercettibile del collo, la guarda e le fa dono di un sorriso tenerissimo, poi accarezza con lo sguardo suo figlio più avanti mentre si stringe al guerriero.
Olga si volta e annuisce. Gli antichi escono dallo spazio sterile e asettico, fuggono alla volta del Tevere in attesa di una barca che li possa traghettare fino al mare. Sfuggire al tempo presente. Olga è ancora all’interno, osserva
la parete dell’Ara ora svuotata e nuda − come di cubo silente e neutro − su di essa lo sguardo che si posa si perde e annienta. Il vuoto spiazza e l’assenza di sostegni inquieta. Il muto opalino della fabbrica si riversa nella sua mente ora sedata, senza domande.

Niente passato, niente futuro. Bianco. Esce, d’improvviso, come d’esplosione, il rombo del chiasso le comprime violentemente i timpani e lo sterno. Di nuovo all’esterno si abbaglia di mille luci e colori, Roma reclama il suo tributo di sofferenza e meraviglia.

Guarda la scatola in stile. Ora accoglie senza sforzo un flusso che giunge da un centro cristallizzato e profondo del suo essere. Alla fine, la sigaretta è spenta sul sanpietrino con una pressione decisa del piede. La pausa pranzo e finita e Olga torna al lavoro nell’atelier romano dell’archistar francese.
Appena un ora e il suo tempo si è dilatato, perso in un infinito riverbero. Percorre il Lungotevere talvolta gettando uno sguardo distratto verso l’argine opposto. In basso, verso il fiume, osserva in lontananza una zattera sfumare verso l’orizzonte, in transito nell’ora eterna e stereometrica abitata dall’umanità terrestre.

 

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