Sul numero 151 Marzo/Aprile 2017 di Area, “Abitare il sogno” una mia lettura critica della mostra “The Japanese House. Architecture and life from 1945 to the present” al MAXXI di Roma fino al 26 Febbraio poi al Barbican Centre di Londra dal 23 Marzo al 25 Giugno e infine al National Museum of Modern Art di Tokyo.
ABITARE IL SOGNO
The Japanese House. Architettura e vita dal 1945 a oggi.
di Carlo Prati
“Del fiume che procede, lo scorrere è ininterrotto, seppure l’acqua di ogni momento non lo sia. Nello stagno, la spuma ora svanisce ora si riforma, senza rimanere a lungo. Le persone e le loro dimore sono esattamente così: in continuo cambiamento”
da Hōjōki (方丈記),”Ricordi di un eremo”di Kamo no Chomei (1155-1216)
Premessa
La condizione dell’abitare è paradigma della condizione umana. La verità dell’impermanenza, della transitorietà dei fenomeni e delle esperienze governa l’intero spettro dell’esistenza; il bisogno primordiale dell’uomo, di contro, nasce dalla necessità di trovare un rifugio affidabile e solido.
Nella concezione orientale la spiritualità è strettamente connessa al “qui ed ora” della vita (il motto zen “dare vita alla vita”) e presuppone, per il raggiungimento di uno stato gioioso e felice, di stabilire la giusta relazione con questo continuo e incontrollabile mutamento. Il rapporto di sostanziale identità tra casa e persona chiede dunque all’architettura un interrogazione e ridefinizione costante delle leggi che la governano e delle forme che la sostanziano.
Si tratta di costruire dentro il paradosso, di dare sostanza a ciò che (per sua natura intrinseca) è destinato al disfacimento. Il tema, che potremmo declinare come “abitare il sogno”, ruota tutt’intorno a questo concetto che Chōmei riassume nella visione poetica dell’uomo che emerge per un attimo, come in un breve sogno, “abitando” nella spuma effimera di un ristagno.
“The Japanese House. Architettura e vita dal 1945 a oggi” si apre proprio con queste parole del grande poeta giapponese. La mostra, curata da Pippo Ciorra con Kenjiro Hosaka e Florence Ostende e la consulenza di Yoshiharu Tsukamoto (fondatore dello studio Atelier Bow-Wow che ne cura l’allestimento), sarà al MAXXI di Roma fino al 26 Febbraio poi al Barbican Centre di Londra dal 23 Marzo al 25 Giugno e infine al National Museum of Modern Art di Tokyo.
Le quattordici sezioni in cui si articola il percorso espositivo mettono in evidenza progressivamente temi e attitudini che nel corso del tempo hanno caratterizzato il dibattito e la produzione architettonica in Giappone. Ripercorrerne le tappe salienti, evidenziandone i caratteri di permanenza e continuità con la ricerca attuale, permette di portare alla luce un sistema complesso di argomenti e questioni ritenute molto importanti per la progettazione.
La mostra
Il dopoguerra pone agli architetti giapponesi questioni di ricostruzione identitaria in rapporto alla cultura occidentale che, con il Movimento Moderno e il Razionalismo, stava gettando le basi di un egemonia culturale massificata.
La casa che Kenzo Tange costruisce nel 1953 a Setagaya è forse la testimonianza più efficace di questa ricerca di un “autonomia” dell’architettura giapponese nel quadro del linguaggio modernista; nello stesso solco la ricerca di Kiyoshi Seike che nella Saito House sembra guardare però con maggiore interesse al dinamismo americano delle Case Study houses.
Il lavoro condotto sul tema dell’alloggio minimo portato avanti con la 9 Tsubo house da Makoto Masuzawa, è fondamentale: lo Tsubo è un sistema di misura giapponese (1 Tsubo=3,3 mq), la moltiplicazione in nove moduli a partire dalla matrice uno produce un alloggio di 30 mq perfettamente in grado di assolvere alle esigenze di un piccolo nucleo familiare. Negli anni sessanta questi semi cresceranno e si svilupperanno da un lato nella torre “capsula” abitativa di Kurokawa e nelle iperboli del movimento Metabolista e, dall’altro, nell’interpretazione in chiave intimista e poetica che dell’abitazione darà Takamitsu Azuma attraverso la Tower House costruita a Tokyo nel 1966.
“Dalla forma chiusa alla forma aperta” è la sezione che racconta la decade tra gli anni settanta e gli ottanta, periodo influenzato in modo significativo dalla paziente ricerca che Toyo Ito e Kazunari Sakamoto portano avanti sul rapporto tra manufatto e contesto. Una decade decisiva che si apre in modo eclatante con l’Aluminium House (1970) e la House White-U (1976) di Ito e si chiude con altrettanta autorevolezza con la Casa a Soshigaya di Sakamoto (1980).
Full article / Living the dream.The Japanese House.
Area on line / www.area-arch.it