
Vorrei condividere alcune riflessioni sul rapporto che intercorre tra realtà e sua prefigurazione. Sono riflessioni elementari prive di un sostegno teorico specifico o accademico, che vengono “rilasciate” come spunto e materiale utile all’esercizio intellettuale dialogante.
Fare luce sulla chiave.
Il Disegno e la rappresentazione sono per chi scrive un aspetto preponderante della vita, sono da sempre una forma auto-terapeutica, un sistema semantico adatto a stabilire relazionalità, una opportunità pedagogica nello sviluppo familiare nonchè un aspetto molto rilevante del lavoro e della ricerca personale. Dati i tempi si potrebbe azzardare che mai scelta fu più azzardata. Le persone oggi esistono apparentemente solo per esporsi, produrre e prevalere. La rappresentazione è auto-rappresentazione, o un suo mezzo.

Questo ruolo determinante del disegno, della rappresentazione, ha ancora senso e utilità?
E in tal caso,
quale può essere la direzione di ricerca e sperimentazione verso la quale muovere?
Disegno e visione.
Disegnare – a matita, a penna, a pantone, a prokey, a pastello e quant’altro, – cioè disegnare per mezzo di una strumentazione classica è senz’altro un esercizio che si deve reiterare anche e sopratutto operando in un contesto che a reso inevitabile l’uso del computer per la produzione (termine non casuale) di forme creative competitive (altro termine affatto casuale). Oggi chiunque può essere “artista” e questa è una notizia positiva: un regime altamente concorrenziale in tal senso, appiattisce – innalzandola – la media qualitativa del prodotto e al contempo permette di riconoscerne con maggiore evidenza l’originalità intrinseca.

Il mezzo digitale ha indubbie potenzialità. Potenzialità “altre”, autonome, che esulano dalla mera capacità di rappresentazione iperrealista o dalla leziosità di una grafica solo apparentemente “alternativa” e ricercata. Al momento non so infatti immaginare altre modalità di “visione” eccetto da un lato la rappresentazione del progetto e, dall’altro, la rappresentazione della realtà operante e delle sue prefigurazioni future.

La rappresentazione del progetto.
Per quanto concerne il primo aspetto direi che siamo in un momento regressivo in cui il software è profusore di una immagine omologante, piatta. Mi si permetta di entrare per qualche istante in tecnicismi da “prospettivaro” di lungo corso. I motori di renderizzazione quali V-Ray o Maxwell richiedono una competenza acquisibile con lo studio e la pratica, non necessitando di capacità creative specifiche. Con un buon impegno si possono raggiungere ottimi risultati. L’immaginario che ne scaturisce è piatto perchè iperreale, insipido perchè privato di qualsivoglia proposizione creativo-critica. Questo è l’ennesimo aspetto che denuncia oggi una perdita di contenuto politico e narrativo del progetto di architettura.

E non credo che per rivalersi di queste istanze sia sufficiente scegliere di riprendere stilemi grafici in voga tra gli avanguardisti radicali degli anni 70′. Sono scelte formali adottate per dialogare con la generazione dominante, la generazione di mezzo.
La rappresentazione della realtà probabile.
I segnali più incoraggianti vengono da un territorio che è difficile codificare, un territorio dell’immagine che è principalmente “cerebrale”, che per sua natura e vocazione quindi è creatore di immaginario e profusore di contenuti. Non sono solo architetti o grafici a operare in questo solco, sono fotografi, artisti, registi, sceneggiatori, scrittori, sono biotipi in evoluzione difficilmente codificabili. In comune hanno la trasversalità e l’interdipendenza delle ricerche, in comune hanno, credo, la necessità vitale di recuperare un operare responsabile e consapevole.

La società attuale è in profondo cambiamento, un mutamento accompagnato da una forte accelerazione dei processi stessi di modificazione. Questa è la realtà che stiamo sperimentando e che ci colpisce quotidianamente con crudeltà e fascinazione. I media rimandano immagini di distruzione, cataclisma, emergenza, così come di guerriglia e sopruso.

I social network amplificano e umanizzano per quanto possibile questi flussi, rendendo forse più forte la frustrazione di un segmento di popolazione terrestre generalmente benestante e opulento, rispetto a un altro in condizioni diffuse di disagio e precarietà.
Una direzione verso cui operare.
La rappresentazione di questo scenario è difficile, non riconducibile a mezzi consueti e sperimentati. Aldilà del senso di frustrazione che si genera traguardando l’ignoto da un punto ritenuto fisso, esiste un orizzonte creativo esaltante: oggi le condizioni sono tali da rendere per la prima volta l’immagine un elemento comunicante ad alto potenziale sociale.
Dunque quale rappresentazione per un mondo più piccolo, in cui le ripercussioni di un evento specifico in una determinata parte del globo sono immediatamente riverberate verso il suo opposto?

Emergenze di ogni tipo, non sono semplicemente più frequenti ma condivise e sperimentate a livello collettivo sia reale che psicologico.
Una rappresentazione che faccia di questa interconnessione la sua forza critica è senz’altro un orizzonte credibile entro il quale investire i propri sforzi e le proprie energie. Una rappresentazione che sappia “prevedere” per “scongiurare” non “prefigurare” per esaltare la sconsiderata “estetica” della catastrofe.

Chi produce immagini di questa natura si pone senz’altro difronte alla necessità di innescare con l’osservatore un confronto dal forte valore emotivo. Le potenzialità etiche è politiche sono amplificate così come le possibilità di diffusione. La “visione” è il mezzo attraverso il quale – nel quadro di un sistema informativo autogestito – si veicola un opera e con essa il suo potenziale comunicativo destabilizzante. Si tratta – a me pare – di una messa a nudo del contenuto, sia questo una menzogna o uno scenario geopolitico futuribile.

Insight images©
Immagini che prefigurano scenari probabili dunque ma anche immagini che denunciano e sollecitano una risposta, un azione anche ideale. Non si tratta solo di “intuire” quindi, risvegliare l’attenzione a impressioni spontanee utili a indagare nuove soluzioni al problema. Si tratta piuttosto di intuire “in modo immediato e improvviso”, di intuire “dall’interno”, per visione, visione verso cui nutrire fiducia e aspettativa.

Insight – letteralmente “visione interna” – viene a indicare la ridefinizione di un sistema operata da un soggetto in grado di apprendere non per errori o prove ma proprio improvvisamente, in modo fulmineo. L’artista dell’intuizione (Insighter) è come Sciamano. Siamo in un territorio affascinante e misterioso che si fatica a definire, una nuova frontiera a cavallo tra mistica e scienza.
Sono le tecniche care al Guerrilla Marketing, sono le modificazioni operata da Adbusters sulle modalità consuete di presentazione del prodotto di mercato. Ma non solo. Sono i fotogrammi allucinanti di pellicole quali 28 Days Later (D. Boyle), The day after tomorrow (R. Emmerich),
I am legend (F. Lawrence ), District9 (N. Blomkamp), o di The Road (J. Hillcoat) senza tralasciare di citare alcuni classici come Blade Runner (R. Scott) o Escape from New York (J. Carpenter)

Sono le Insight images di Lebeus Woods, Moebius, Giacomo Costa, Filip Dujardin, Massimo Scolari, Botto e Bruno, Franco Brambilla, Fulvio Bonavia, Ray Caesar, tra gli altri. E sono sopratutto i corto-circuiti tra questi materiali, le interferenze e le permutazioni che si stabiliscono volontariamente tra questi mondi interiori e condivisi.
